Anila Resuli - finalmente Lei

fil0diseta
00mercoledì 8 novembre 2017 00:24


Autore: anila resuli
qualche poesia presa direttamente dal suo blog


*
non scordare quando entri di chiudere la porta.
negli ospedali i piedi piccoli entrano dappertutto.
parlano i muri, le facce storte delle donne,
le stanze consumate dagli occhi
le linee deformate delle stanze
ed i corridoi stretti che portano solo da una parte
continua della tua caduta. tieni il peso
dove sonorizza meno il dolore, dove il fegato
ha raccontato più volte al cuore come si arriva
di lì e ci si perde. la mano ha piantato
cefalee lunghissime nelle braccia.
ascoltare da un orecchio non è lo stesso
orecchio che prude perché mi pensi altrove,
ma è una cava unica dove inghiottire il farmaco
non fa più nemmeno male. poi dicono le api spesso
passano di qui e pungono pungono e ti guardano
mentre muoiono. tu cerchi di non vedere dove cade
il loro corpo. cerchi di incastrare la testa
nella fotografia dei boschi, nelle piante che crescono
e tessono radici e tacciono. prega per me
nella diaspora delle facce che allontanano
i sordi ricami delle mattine. nelle vetrate lunghe
dei corridoi che ritornano sempre dalla stessa parte.
nello stesso cerchio dappertutto
come silenzio lunghissimo
di primavera.
(da "nascita")

*
non possiamo credere di essere morti.
tu di là, accartocciato e silenzioso
come un origami di carta a piegare le tue rovine
ed io così divaricata e spalancata e infinita
nelle urla delle mura nella casa di una madre.
canta per me.
non voglio sentire altre voci. come piccoli ragni
le braccia si sono unite agli angoli dei muri
e le finestre non lasciano passare l’aria
ma uscire i nervi e le ossa e le travi giganti di questa casa.
ha udito il tuo canto nostro figlio prima di andare,
ha cucito addosso a me il suo sangue
e s’è ucciso.
ho qui appena le mani,
le mani che hanno sognato.


*
in stanza c’era solo il corpo ed un taglio profondissimo,
l’infibulazione delle tube: tagliate quella destra
e sinistra ché non servono a niente.
la stanza rimpicciolisce le voci.
all’angolo tu resti un uomo sfatto
tra forbici ed immagini di feti sui muri.
la tua faccia è piatta. non ha corpo il tuo occhio,
chiuso tra le palpebre parla meno.
sai dove sono, divaricata e piccola.
le gambe lunghissime conoscono le radici
e piantano giù a fondo, nel letto annidano unghie;
sono sfatta anch’io, un’umana che non genera umani.
inutile dire che sapevo. la tua mano toglie il dubbio
che tutto questo abbia un nome.
Scritto il ottobre 27, 2017

(nascita)


*
ho la radice di casa che assomiglia al mare.
Scritto il ottobre 22, 2017
(frontiere)


*
come muri spingono sudici i volti le braccia arcobaleni
cadenti nella testa dalla tua parte dove credere
è più facile che sopravvivere; muschio mitili
travi cortecce districate gambe dorsi di mani
tagliate tagliate quelle teste come cartoni
di Re quadri imperfetti e Regine rosse.
spingono scesi oltre l’acqua dove è fiamma
la parola snervano le vene nel corpo
io le ho contate le tue e le mie hanno lo stesso
numero le stesse strade intrinseche dove
ubriacano le orecchie. tagliate tagliate le gole
il marcio delle placente distacca improvvise urla
meno distanti delle tue mani. stai qui
un urlo per te lo cerco nel mio utero
così così oltre dentro dove inarca ed incendia
una fornace e sveglia spalancati occhi
troppi occhi meno occhi meno tutto e tanto
meno rumore e silenzio profondissimo.


*
non è qui il Dio buono che pronunci
con la bocca sulle strade di frontiera.


*
avevano deciso che nascessi di novembre
perché di freddo si moriva meno se preparati.
mi avevano già dato il nome del mare
poi cambiarono in vento, per l’inerzia
delle foglie cadute sul fondale.

non parlarono più del mio nome,
lo dissero una volta e per tutte
e tutte lo costrinsero alla nascita.

ci fu una festa dicono. due mesi dopo.
non ci si era abbastanza preparati al freddo,
le mura cadevano rigide sulle spalle.
il vento incubava nelle stanze. tormentava
i piedi, i capelli biondi, gli occhi forse
verdi, forse scuri.
ma avevano già deciso che vivessi, senza dirmelo.

due mesi ci vollero per farmi nascere intera:
il seno corto s’era fatto pietra, l’odore
l’avevo cambiato tante volte. tante volte
non gridavo, sopperivo al distacco col silenzio.

ero piccola così, ferita del taglio ombelicale,
del ventre piccologrembo intero e frammentato.

non ricordo il taglio umano della neve poco dopo.
fu autunno dopo tutto. il mio primo.


*
mi volevo suicidare nella camera numero 4,
pensavo che il 4 fosse un buon numero dove morire.
avevo contato pure i fiori presenti,
i tappeti, gli asciugamani, i cuscini, le fodere,
persino gli abiti portati; tutto in quattro
in fila come demoni, tesi, sbilanciati sul fianco;
non mi ero nemmeno coricata la sera,
avevo udito il bosco accendere una sigaretta
e bruciare, incrociato le gambe a pensare
come avrei potuto avere una morte felice.
così ricordo il rosso intorno, mi concentro
sul viso, una geometria spassosa del tuo corpo;
la luce che si svincola dal vetro per udire
più a fondo, il rumore dappertutto.

(nascita)


*
talvolta devo numerare sulle dita l’infinità della pioggia.
sul corpo non c’è traccia del mare,
né occhi restano: hanno guardato l’ultima volta
il canto dei boschi.
hanno praticato il bene, quando tu non c’eri.
forte la distanza ci ha divisi.
tuo figlio ci ha creati mostri dal primo giorno.
il mio sangue ci ha unito nel giorno del Buddha buono.
pregavo smettessi di piangere.
pregavo smettessi di chiudere gli occhi e guardarmi;
guardarmi viva, come prima dell’autunno.


*
ancora breve il battito, sotto la pelle assorbe
il sangue di cui parleremo nelle ore della notte.
ho assunto l’ultima pillola. sei nei palmi pieni,
tu e la tua parola. l’unica paura della notte,
è di avere freddo. distanti le campane.
si sente che deve morire qualcuno.
si sente che devi andare.


*
è scesa la neve,
come bambini ha coricato gli alberi.
i destini si sono stesi sulle strade.
Maria ritarda ad alzarsi, guarda in lontananza
i suoi demoni, resta nuda, la schiena
a feto sulle lenzuola non muove un muscolo,
ingoia l’aria senza tradurre il fiato.
è mancato il figlio, s’è compresso il battito,
inghiottito come alimento sceso
nel sangue, donato e perso, all’istante.


*
con la distanza, la strada ha superato le forme
dove a colpi l’aria scende e risale, sempre dal nord
e per il nord prega, adagio di dover tornare.

cosa faresti, se non con i palmi a pregare
e tenendo il giornale, gli occhi a leggere
i numeri a fondo pagina a rovescio, distillando
l’acqua dal rubinetto goccia a goccia e le bottiglie
vuote, numerate col gesso o a matita e un laccio rosso
o bianco a seconda di come ti alzi la mattina.
come faresti lo sai dal gesto della musica,
la tv che illumina i parchi del sud, l’incendio
caro dell’estate, la Babilonia impalata, il sudore
che vieta di guardare la luce ma intrapola la vista
ed un alone di chiaro opaco, mistifica l’aria
che sembra polvere. canticchi di tanto in tanto
per snaturare il nervosismo della bocca e sentire
come un pugno un peso del petto che piccolo forgia
la sua forma per restare. nella distanza hai chiamato
la creatura dell’acqua e s’è fatta voce
nello stomaco, l’orma in un corpo che muove,
ma tace. è estate e lo gridi:
pietrificata la terra ti ha ricordato di tornare.


*
ha un po’ caldo il volto di questa casa
che si scioglie; mi tieni la mano come domani
fosse l’ultimo giorno; domani, non oggi,
ché si sa, con la pioggia laveremo i corpi
nudi, un’estate ferma senza mare,
ma alberi dappertutto, segneranno i passi
nell’acqua. rinunceranno a guardarci,
impigliati tra le foglie conteranno
quante volte mi bacerai la fronte
prima dell’addio.


*
c’è qualcosa da dire
mi ricordo appena di parlarti –
nei piedi le lumache camminano strisciando
ma cerco di non colpirle; l’acqua cresce i gusci,
alimenta il riverbero e distrae. distratti
camminando ci siamo visti solo la mattina.
avrò abbastanza luce per ricordare,
eri appena due passi più lungo, passi come dita
e stretto stretto, oltre il fiato. ed il Buddha;
la stanza ti sorrideva; ed i fiori;
i fiori rimarcavano il profumo di Dove della tua pelle –
boccheggiava. avrò passi di te da ricordare domani,
avrò le ginocchia crocifisse
ed il petto in fuori perché l’aria mancherà di cucire
e si stringerà affine alla tua pelle. stretta,
in un piccolo giro del fianco, udirò dall’occhio sinistro
il timpano più stretto al cuore.
non noti come stimola l’aria il cielo,
le borracce di piogge scese come catene unite
nel grembo pendono, traggono ciò che dentro
è muschio senza vitalità, quasi cerca l’uscita
più breve per tornare alla casa dove morire
senza il rumore delle mura, solo.

ma se c’è qualcosa da dire
lo ripeterò come frastuono,
torbido guscio che schiaccia ciò che dentro è feto,
mio nostro pugno di sangue, che si scompone
e delinea la vena del seno, attorciglia il fiato
ed un battito più giù unisono cresce;
ma avrai poco da raccontare senza la sonorità
della lingua; insegnerai la lingua con cui parlasti
la prima volta, con le tempie unite
a pensare al nome da darci tra le mura dei vivi,
le fotografie sole si guardavano ammirandosi la fronte.

come sei piccola
nel tuo grembo tagliato in due – e cucito
ti ho lasciato un nome piccolo
da bisbigliarlo col rumore dell’acqua
e non sei più nata.

(frontiere)


*
sentiamo di dover andare, dove
ci siamo incrociati la prima volta,
come per riavvolgere e rivivere tutto
diversamente.
ma nulla sarebbe diverso in fondo:
tu avresti sempre un figlio maschio;
io sarei sempre una femmina in attesa.


*
e poi ci si chiamerà nelle voci dei boschi
uno due tre mille come le lingue lunghe
di strade attraversate per sogni e notti
di lunghissime strette; e bavagli di bocche
cresceranno le parole: cos’hai da dire adesso,
mi metto a cucire un orlo sulla porta,
lo unisco piano agli angoli e ti dirò
– resta – perché restarono qui la polvere
e l’addio che lasciasti sotto la luce.

non ci sono passi
nei fossati è mancata pure la pioggia
quest’anno di mare e sabbia e ubriacature
d’inverno con il freddo.


*
ho il tuo rumore sulla bocca
e so che urli andando; dicono le voci
che a volte il tuo dettaglio mentre guardi il sole
tace; e so che pensi al mio silenzio
e quanto dentro si accorge il veleno
che ha scardinato tutto
dalle ossa ha eletto l’odore
e nulla è rimasto
nulla.

mura e tralicci
equivalgono le ombre scese
con la notte.


*
non ci sarà termine, né io né te
cesseremo di contare i fiocchi della neve
e penderanno i tetti delle case
e gocciolare si sentiranno le statue;
le mosse ventose delle catene intrecceranno gli alberi
e morirà l’erba, le piante che rigenerano
ogni primavera; ovunque dove la neve è caduta
scioglierà; si scioglieranno e non avranno gli stessi
occhi le ombre, il fiato s’accorcerà nelle distanze
dove saremo imprescindibili; eppure
né io né te cesseremo d’essere parte
l’un l’altra come un alveare urleremo
ci conteremo le costole
ci addormenteremo
faremo rumore.


*
e se non fosse che la piantagione delle braccia
s’è fatta amare oltre queste quantità interminabili
di alberi; sai amare chiedi – ama me, ti saprò amare,
dare tutto – dappertutto le voci
hanno compreso quando restare mute.

(oltre il ponte del drago)




annamaria.giannini
00mercoledì 8 novembre 2017 11:26
leggoleggoleggo, amo questa donna
Giuliana.Pisanello
00mercoledì 21 febbraio 2018 12:20
Un bambino che non doveva nascere...un bambino senza vagito, la sua minuscola testa, la sua piccola gola...le sue gambe...i dorsi delle manine tagliate ... e la placente gelida e il suo...il nostro urlo di madri...troppo madri...
Mia cara cerca su Forum la mia, tratta dalla mia ultima pubblicazione " Ho fatto un sogno" ( Madre Teresa di Calcutta , cento liriche ispirate da lei)Ti sono vicina mia cara poetessa, ti ero vicina, perché tu mi eri accanto quando, l'anno scorso scrivevo.
Giuliana P.
annamaria.giannini
00domenica 8 aprile 2018 12:12
Re:
Giuliana.Pisanello, 21/02/2018 12.20:

Un bambino che non doveva nascere...un bambino senza vagito, la sua minuscola testa, la sua piccola gola...le sue gambe...i dorsi delle manine tagliate ... e la placente gelida e il suo...il nostro urlo di madri...troppo madri...
Mia cara cerca su Forum la mia, tratta dalla mia ultima pubblicazione " Ho fatto un sogno" ( Madre Teresa di Calcutta , cento liriche ispirate da lei)Ti sono vicina mia cara poetessa, ti ero vicina, perché tu mi eri accanto quando, l'anno scorso scrivevo.
Giuliana P.




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