Deindustrializzazione e speculazione

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ralco
00mercoledì 5 agosto 2009 12:08
Il caso della Innse presse a Milano
E' in cronaca di questi giorni la triste vicenda di questa azienda i cui operai, per opporsi allo smantellamento dei macchinari e tentare di salvare il posto di lavoro e, al tempo stesso, un'impresa che sembrava offrire ancora remuneratività, ma non quanta ne avrebbe assicurato la cessione dei macchinari e delle aree, stanno presidiando per protesta un carroponte dello stabilimento.

Mi è venuto in mente qualcosa di analogo accaduto anche da noi a Genova con Fiumara e Campi, aree dove si costruivano turbine e macchine elettriche, occupando migliaia di persone, riconvertite non tanto ad imprese new-tech, quanto, con qualche eccezione, a centri commerciali, ludici, residenziali.

E questa, per me, è la vera speculazione che bisogna combattere, non tanto quella del Lido, dove bagni c'erano e bagni ci saranno, si spera pure meglio inseriti nell'ambiente: distruggere, invece che far evolvere ed ammodernare, se non più adeguate al territorio, imprese, occupazione e produzione di valore.
O vogliamo che questa città diventi sempre più a misura di pensionato, con voi ragazzi che dovrete andarvi a cercare lavoro fuori?

Vi incollo un commento da Repubblica web, attendendo i vostri, se vi va.

Il tramonto dei padroni
Gli imprenditori milanesi non vogliono mettersi più in gioco e alla produzione preferiscono la rendita immobiliare
di Giorgio Lonardi

Gli operai davanti ai cancelliA volte hai la sensazione che questa città voglia rimuovere il suo passato. E che le fabbriche siano considerate qualcosa di indecoroso, di «sporco», da rimpiazzare al più presto con schiere di vezzose palazzine o un centro commerciale. Eppure sono le mani degli operai e il cervello fino dei «padroni veri», ad aver fatto ricca Milano. Fabbriche come la l’Innse Presse, nata nel 1973 da una costola del gruppo creato dal genio di Ferdinando Innocenti, quello della Mini e della Lambretta.

Acqua passata? Mica tanto. Anche perché se questa città e se questa regione si illudono di uscire dalla crisi solo grazie ai servizi e al mattone fanno un errore grossolano. Che ne dice sindaco Moratti? Che ne direbbe suo suocero Angelo di questa Milano che assiste impotente alla chiusura delle sue fabbriche senza muovere un dito?

La Lombardia e il Nord potranno tirarsi su solo se sapranno rilanciare i loro stabilimenti. E se saranno in grado di esprimere una classe dirigente fatta da padroni veri e non da managerini buoni solo a perdere i soldi al Monopoli della finanza. E qui sta il punto: che padrone è un signore che acquista uno stabilimento per 700 mila euro e poi rivende una parte dei macchinari per 2,5 milioni?

Sicuramente Silvano Genta è un «padrone astuto», uno che sa fare i suoi interessi con abilità e determinazione. Ma ci vorrebbe una bella dose di fantasia per definirlo un «padrone vero» capace di rischiare, di mettersi in gioco, di cercare nuovi mercati e nuove occasioni per i suoi prodotti e per la gente che lavora per lui. Certo, c’è il diritto di proprietà. E Genta è il proprietario della fabbrica.

Così come l’Aedes è la società proprietaria dell’area di Lambrate che, si sa, è vasta e appetibile. La tentazione di stendere l’e nnesima coperta di cemento su un pezzo di periferia che è già un’a rea semicentrale appare irresistibile. Eppure anche il diritto di proprietà, quando c’è in gioco il bene comune, l’interesse della collettività, dovrebbe subire delle restrizioni. Bene ha fatto la Regione ad impegnarsi per trovare una soluzione alternativa per una fabbrica che aveva 6 mesi di commesse su cui lavorare, ottime maestranze e un bel nome da difendere.

Comunque non basta: presidente Formigoni si faccia sentire, cerchi in giro un «padrone vero», come quelli di una volta. Qui non si tratta solo del destino di 49 famiglie ma di affermare il principio del bene comune di fronte ad una gestione quantomeno miope ed egoistica da parte del privato. Gli spazi di mediazione (anche con l’Aedes) potrebbero essere ritagliati. Oppure vogliamo rassegnarci alla chiusura dello stabilimento, alla speculazione sui macchinari, alla cancellazione delle ultime fabbriche dal panorama urbano e alla rottamazione con loro degli operai rimasti in questa città? (05 agosto 2009)

erugby
00mercoledì 5 agosto 2009 14:16
Intanto si potrebbe, al contrario di quanto è attualmente, tassare le rendite finanziarie il doppio di quanto si tassano i ricavi da avvività produttive, soprattutto quando queste danno occupazione e non gravano in qualche modo sullo stato.
giambo64
00mercoledì 5 agosto 2009 14:50
Questo è il capitalismo!
Si produce dove costa meno, si vende dove ci sono più soldi.
Una volta eravamo misci e andavamo tutti a lavorare in fabbrica per comprare lo stretto indispensabile, cercando di metter via qualcosa.
I figli ne sono stati bene e ora spendono, per cui tutti ai centri commerciali. Quando la ricchezza finisce, ricomincia il ciclo.
Il capitalismo ha vinto tutte le sfide e domina il mondo, perchè stupirsi?
In fondo, come si dice, "l'hai voluta la bicicletta, ora pedala!"

Sono favorevolissimo a tassare le rendite, anche molto di più, comunque questo non servirebbe a riportare l'industria, la convenienza sta ad est, dove i costi sono più bassi (ed i salari da fame).

"Il mondo cambia, ha scelto la bandiera, l'unica cosa che resta è l'ingiustizia piu vera"
euge1893
00mercoledì 5 agosto 2009 15:13
Che peccato che una persona intelligente come giambo rinunci a formulare un ragionamento e ci offra solo vuoti slogan anni 70!

La tassazione delle rendite finanziarie risponde a motivi di equità: non si comprende per quale motivo esse dovrebbero avere il regime privilegiato che oggi anno, anche atteso che i soggetti passivi d'imposta sarebbero, quantitativamente, solo in minima parte i piccoli risparmiatori (la vecchietta e la sua cedola dei BOT): come è noto, gran parte dei titoli sono posseduti dagli investitori istituzionali.

Riguardo alla tematica da cui Ralco prende lo spunto, occorre considerare che ormai in Occidente la manifattura (soprattutto l'industria metalmeccanica e pesante) è al suo tramonto e che il futuro vedrà nelle nostre città solamente sempre più la testa delle imprese, e sempre meno le fabbriche. Questo non credo sia colpa degli affamatori capitalisti, ma sia piuttosto una conseguenza dello svilupparsi dei grandi paesi asiatici, che offrono forza lavoro spesso di buona specializzazione a un costo di gran lunga inferiore a quello occidentale.

Io sono solidale con la protesta degli operai milanesi, ma ritengo che la loro lotta sia ormai antistorica.

La risposta che noi in occidente possiamo dare ad un processo che è mondiale ed irreversibile è quello di investire sulla formazione, sulla scuola, sull'innovazione, sulla qualità del lavoro. Non sul mantenimento di fabbriche che se non chiudono oggi, chiuderanno domani (mattina).
Il Celle
00mercoledì 5 agosto 2009 15:37
Mi ricollego a quanto detto da Euge qui sopra:
tralasciando il fatto che la Cina e compagnia non ci potranno produrre tutto ma solo un certo genere di beni che ossono essere comodamente tasferiti dai luoghi di produzione ai mercati, prima o poi anch questi paesi-officine cercheranno di emanciparsi e punteranno a diventare loro le teste del sistema (alcuni lo stanno già facendo) e allora noi che faremo?
Peraltro, personalmente, trovo abbastanza ingiusto scaricare i costi ambientali dell'industria su altri paesi sfruttando la loro povertà.
Per quanto riguarda la tassazione non mi esprimo perché sono piuttsto ignorante a riguardo.
Spero che questa discussione abbia seguito perché la trovo affascinante e di interesse comune a tutti (dovrebbe)
giambo64
00mercoledì 5 agosto 2009 16:37
Slogan anni 70? Veramente ho solo citato una canzone di Venditti degli anni 90!
Per il resto siamo arrivati alle stesse conclusioni: produrre da noi non conviene per via dei costi.
Resta un fatto, innegabile, ciò che è sporco e inquinante lo releghiamo nei paesi poveri, ciò che è faticoso e pericoloso lo facciamo fare agli altri, poi i risultati li compriamo nei centri commerciali, tutti belli e puliti.
Per i nostri figli investiremo, come dici tu, nella scuola, nell'innovazione, nella qualità del lavoro, per i figli degli altri ci sarà invece un bel lavoro in fonderia a 50 dollari al mese.
Come possiamo pensare, su queste basi, che ci sia mai pace nel mondo?
Pinuccio "58
00mercoledì 5 agosto 2009 21:31
Chissa perchè, la globalizzazione, da qualche decina d'anni a questa parte, ci fà assistere quasi impassibili a questi spettacoli, dove il magnate parun, carico di miliardi, dispone della vita e del futuro, sempre più negativo delle maestranze, che hanno il torto di conoscere e saper fare quel solo lavoro, traparentesi retribuito spesso con stipendi da fame.... in Italia ma non bassi da arrivare a competere con quelli del terzo e quarto mondo...
una gara sempre più al ribasso di una grande lotta tra poveri.
Peccato che a vincere siano sempre i padroni...
Sempre più ricchi e sempre più arroganti!
erugby
00mercoledì 5 agosto 2009 23:47
Re:
euge1893, 05/08/2009 15.13:

... occorre considerare che ormai in Occidente la manifattura (soprattutto l'industria metalmeccanica e pesante) è al suo tramonto e che il futuro vedrà nelle nostre città solamente sempre più la testa delle imprese, e sempre meno le fabbriche..



Scusa ma... perchè ?
Secondo me la società del futuro dovrebbe cercare nei limiti del possibile di favorire ed assecondare i desideri di ognuno e le capacità individuali in modo da diminuire i conflitti e progredire;
siccome tutti abbiamo teste diverse ci sarà chi è felice, almeno come "le teste del sistema", di impiegare il proprio ingegno e magari il proprio gruzzolo nell'impagliare seggiole o produrre rubinetti o chissà cos'altro,
perchè mai, per decisioni prese nell'Olimpo dell'economia, dovrebbe rinunciarvi ?



euge1893
00giovedì 6 agosto 2009 09:10
scusa erugby, non riesco a seguire il tuo ragionamento, in riferimento alla parte del mio intervento che hai riportato [SM=g27994]
Trammax
00giovedì 6 agosto 2009 10:36
Allora, provo a ragionare a mente fredda: tutti i paesi cosiddetti "progrediti" si stanno più o meno rapidamente trasformando, passando da un' economia di tipo industriale-produttiva ad una di tipo tecnologico-terziaria, e ovviamente questa trasformazione lascia dietro a sè una scia di cadaveri. Tutto sta nel comprendere se questo meccanismo sia totalmente ingovernabile. La situazione italiana, in particolare, è stat affetta da due elementi patologici: la classe imprenditoriale più assistita e parassitaria d'Europa e la massiccia presenza delle partecipazioni statali: questo ha consentito la sopravvivenza artificiosa di industrie decotte e di tecnologie superate. Dove non era direttamente l'apparato pubblico ad intervenire spuntava fuori qualche imprenditore (affamatore no, ma spregiudicato sì) pronto a guadagnarci sopra spuntando con la mano pubblica condizioni vantaggiosissime ricorrendo al ricatto occupazionale (Riva docet). In questo mare magnum di mediocrità affondano anche gli elementi di eccellenza, che riescono a tenersi a galla finchè riescono a mantenere posizioni d'avanguardia senza cadere nelle grinfie di qualche multinazionale (come è successo ad una nota Azienda di Sestri Ponente, specializzata in telecomunicazioni: tutti al loro posto, ma un paio di volte all'anno vedi in giro facce preoccupate).
Logico che in questo marasma, la tentazione di percorrere la facile strada della rendita immobiliare sia forte: ed è qui che dovrebbe intervenire, con l'autorevolezza del caso, l'Autorithy pubblica, attraverso gli strumenti della pianificazione urbanistica e strategica, stabilendo chi fa cosa, dove e come. Nessuno può obbiettivamente rimpiangere l'Italsider di Campi, che avava esaurito il proprio ruolo: ma Campi è diventato un polo di piccole attività molto diversificate (qualcuno potrebbe dire "un incubatore di imprese"); diverso il caso della Fiumara, dove non si produce ma si consuma: replicare all'infinito quel modello è stolto e criminale. Restano infine aperte le problematiche legate alla ricollocazione di maestranze superspecializzate e difficilmente reinseribili nel medesimo profilo, visti anche i risultati fallimentari di molte politiche di outplacement.Come si vede la situazione è complessa e non si risolve con due slogan.

Infine le parole di erugby non mi sembrano campate in aria: si ribadisce , una volta di più, che il Moloch dell'economia è diventato incontenibile, ed è urgente ripensare ad una società in grado di esercitare misure di controllo e liberare le capacità crative e produttive di ciascuno dalle catene della globalizzazione: in questo senso, un altro mondo è possibile. [SM=g27988]
erugby
00venerdì 4 settembre 2009 01:51
Da ilsole24ore.com un bell'articolo di Nino Ciravegna "La recessione si specchia in una sfera d'acciaio" LINK
La vicenda della Bbsfere di Carate Brianza conferma quanto scritto qualche post prima che in Occidente soprattutto l'industria metalmeccanica e pesante è al suo tramonto;
mi chiedo, visto che il loro prodotto è molto richiesto e di precisione, perchè i signori Bonacina almeno non mantengano comunque la testa dell'impresa in Italia ma invece sembra liquidino completamente l'attività.
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