la prefazione a cura di Anila Resuli
Divisa in due parti, composte, la prima da 15 e la seconda da 24 poesie, la silloge di Sebastiano A. Patanè Ferro si presenta come un percorso interiore che oscilla tra i tempi verbali di passato presente e futuro, toccando temi diversi che attraversano condizioni alterne dell’animo poetico. La condizione predominante dell’io poetico all’interno di queste poesie è senza dubbio la solitudine, vista non tanto come una presenza negativa nella vita del poeta, quanto una condizione necessaria per valutare quanto nell’io rimane e perdura il ricordo, prevalentemente buono, dell’insieme di attimi e momenti vissuti con persone, luoghi, silenzi, rumori. L’io poetico di questa raccolta non solo si domanda se il passato contiene un’impronta positiva, seppur malinconica, da trattenere dentro, senza poterla dimenticare, ma cerca in questo passato delle corde e degli appigli per potersi proiettare nel futuro. Giocano questo ruolo, oscillando tra passato e futuro, il conscio dell’io poetico e l’inconscio dello stesso, che tratteggia nei personaggi poetici sia attimi del mondo visibile, sia quelli legati al sogno, alla fiaba.
«Vieni passato, vieni a riempire questi occhi che non tornano alla conta / [...] gelosi della luce» (# 6 dell’assenza.)
Patanè non si aspetta un passato che fugga, ma si aspetta piuttosto un passato che ritorni, che sia sempre presente, perché sembra che il passato possa portare con sé solo cose buone, dove il poeta s’incontra con un vero e proprio scrigno che contiene attimi preziosi. In questo lavoro di ritorno del passato non vi è la rimozione, seppur nell’assenza sembra esserci il dolore, ma vi è la ricerca del prendere atto che quanto è stato, abbia un perché.
«Sentiamo cos’ha da dire [...] / Jonathan Livingston che avrebbe voluto riportare lui il rametto d’ulivo» (# 4 dell’assenza)
Si riconosce qui il desiderio inconscio di identificarsi con questo personaggio di Richard Bach, sempre alla ricerca della perfezione del volo: nella poetica di Patanè la ricerca della perfezione può essere identificata con il capire il profondo senso dell’assenza, di come il passato possa essere stato sviscerato ed essere “il qui e l’adesso” un modo completamente estraneo rispetto ad allora. Predominano in questa poetica le due figure principali, ovvero l’Io e l’Es freudiano, ovvero il principio della realtà e quello del piacere, sogno. L’incontro tra i due è difficile e provoca nel poeta uno scombussolamento e spesso questo ricorda al poeta il sacrificio:
«solamente il soffitto sa del sacrificio / e la mia carne» (Le parole)
L’io quindi vivendo l’assenza del passato quasi si dimentica dell’Es. Questo lo porta a cercare fortemente l’incontro tra passato e presente per potersi (ri)conoscere di nuovo. È una ricerca incessante per il poeta questo incontro.
«ma questa vastità di niente / dove ogni cardine si perde» (# 9 dell’assenza)
Più cruda, la seconda parte del libro, trascina il poeta in un duo amoroso, un arricciarsi stretto di parole verso un’amata che manca, o che è assente. Si nota ad ogni poesia la disillusione, la ricerca della verità di ogni momento, la cancellazione della perdita, il trascinamento di un ricordo ancora vivo. Eppure nel ricordo permane la rassegnazione forse? Questo abbarbicarsi in quello che è stato e che non sembra neanche più vero e possibile.
«come se – talmente è lontano – non fossimo mai stati veri / è una dimenticata mano o un muro» (è un muro – vedi – che si separa)
La separazione continua a fare da nodo lungo i versi, diventa come una cadenza di passi necessaria nella raccolta, un ritmo costante e conteso tra presente e passato, assenza e ricordo. Ma nell’assenza non vi è la rassegnazione come fine ultima del dispiacere della perdita, ma vi è anche il superamento del dispiacere, il superamento del dolore. Il poeta è conscio della perdita e nel dolore fa un quadro poetico che rimanga, come un’impronta di un passato che non è solo assenza, ma diventa un nodo necessario per la propria esistenza.
«la luce ridotta a pallore mi trattiene legato all’àncora / di questa maledetta dissolvenza che annebbia» (quando si sollevarono in volo i corvi lasciarono grani di nero tutt’intorno)
L’assenza porta con sé il desiderio di distacco da un dolore che ha messo radici dentro. Ora la solitudine, come all’inizio della silloge, ritorna a farsi viva. Questa volta però vi è una consapevolezza diversa. Qui la solitudine non è cercata ma un presente obbligato da un passato strappato a forza. L’io qui non ha delle scelte, ma è colui che subisce la perdita, costringendosi ad accoglierla, senza poter dire altro.
«sarà la corsa verso un niente che impressiona / un brindisi senza vino né bicchieri fatto da fantasmi» (c’è odore di chiuso nonostante la bella luce)
Così conclusa la silloge di Sebastiano A. Patanè Ferro racchiude i volti della stessa, i fantasmi del passato che resta fermo a guardare il poeta, il ricordo e quant’è rimasto dello stesso nella quotidianità di una vita ormai del tutto cambiata.
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