Musiche d'America unite nel concertone per Barack
Il rock carico di grinta e speranza di Springsteen, la regina del R&B Mary J Blige, un commosso, felicissimo, padre del folk come Pete Seeger, il jazz di Herbie Hancock, il country, l'hip hop, le mille anime musicali dell'America erano lì, ieri, a Washington, per dire una cosa netta, chiara: noi siamo una sola cosa, «We are one», come recitava lo slogan del concerto in onore di Barack Obama all'ombra di Lincoln.
C'è la retorica, ci sono le immagini dell'America che soffre e lavora, ci sono le sue icone, le rievocazioni dei discorsi più toccanti dei padri fondatori e dei grandi presidenti, ma c'è, incontrovertibile, una nazione intera che vuole voltare pagina. Che ci crede, profondamente: assieme si può, a partire dagli oltre 500mila accalcati al freddo fuori dal Lincoln Memorial fin dal mattino per festeggiare l'insediamento del 44° presidente degli Stati Uniti.
Yes, si può avere il più giovane premier americano della storia, il primo dalla pelle nera, il primo dai tempi di Kennedy capace di riaccendere la speranza nel mondo. Nella serata trasmessa in Italia da Sky, in tribuna d'onore sfilano al completo le famiglie Obama e Biden arrivate in treno. Sul palco il "traffico" dei musicisti, mentre attori di fede democratica leggono brani e rievocano la storia di un paese che da decenni ambiva a un cambiamento, a una speranza. «Change» e «hope», le parole più gettonate della serata.
IL MOMENTO DI SPRINGSTEEN
Tocca al Boss aprire le danze, con la sua «The rising», la rinascita del post-11 settembre che è anche la rinascita dal post-Bush. Lui, Springsteen, il più acceso sostenitore di Obama. Poi, dopo il figlio di Martin Luther King, è la volta di Mary J Blige, e ancora di un "lettore", Jamie Fox (il Ray Charles cinematografico) che introduce il duo formato da Bon Jovi e Bettie Lavette con una delle tante frasi di sostegno che caratterizzeranno la serata: «Abbiamo aspettato tanto tempo, ma il cambiamento finalmente è arrivato».
E via con la splendida versione di «A change is gonna come», che fu portata al successo da Sam Cooke. E ancora Tom Hanks, il duo formato da James Taylor e John Legend, John Mellencamp, Josh Grobam, fino al super trio con Herbie Hancock alle tastiere, Sheryl Crow e Will I Am su «One love», classico universalista di Bob Marley. Serata con una regia perfetta, tempi strettissimi, inquadrature da Oscar. Arriva Jack Black, poi la stella del country-pop Garth Brooks, che mescola «American pie» con i classici dei Blues Brothers: un trionfo, con la standing ovation del palco d'onore, Obama e family compresi. Tutti in piedi a battere il tempo e cantare anche su «Higher Ground», con Stevie Wonder al piano e Shakira.
Tutti in piedi su «In the name of love» degli U2, ma anche su «City of blinding lights». Bono Vox ricorda come sia stata scelta da Obama per la campagna elettorale, poi il suo solito discorso: «Ecco il sogno del Dr King che è diventato realtà - grida - un sogno che non è solo americano, ma anche irlandese, palestinese, israeliano..». Un crescendo fino all'apparizione della coppia Springsteen e Pete Seeger, padre del folk di protesta che indossa camicia di flanella e cappellino di lana. Assieme a lui, poco prima della chiusura corale con Beyonce, c'è tutta la platea a cantare «Questa terra è la tua terra», «This land is your land», canto patriottico scritto da Woody Guthrie. Canta il vecchio Seeger e incita tutti a seguirlo, perché questa sia la terra di tutti. Perché il sogno, per l'America che spera, è da poco ricominciato. Un gadget distribuito gratis all'entrata recita «I Witnessed History» (Sono stato testimone della Storia). Quello che pensano tutti.